La figura dello stregone Clingschor attraverso Wolfram, Wagner e Hugo Pratt

Sette secoli di rabbia

La figura dello stregone Clingschor attraverso Wolfram, Wagner e Hugo Pratt

di Massimiliano Barberio

 

 

And therefore, since I cannot prove a lover

To entertain these fair well-spoken days,

I am determined to prove a villain

And hate the idle pleasures of these days. 

Così terminava il primo monologo di Richard III, tragedia del potere shakespeariana, dove il protagonista, il perfido Richard, decideva d’assumere il ruolo che il mondo, rendendolo deforme, si aspettava da lui: avrebbe giocato la parte del villain, essendo lui determined, determinato ad esserlo, in quanto sua volontà ed in quanto volontà che lui non può controllare. Avrebbe così intrapreso il proprio percorso per divenire re d’Inghilterra.

Quale miglior paragone che questo, rispetto allo stregone nemico di Gawain e Parsifal, Clingschor?

Una figura macchiata dal peccato ed al contempo impotente di fronte alla sua natura, che reagisce invaso da un furore umano, a volte insensato, a volte violento, a volte disperato, ma con un calcolo invidiabile alla sua inadeguatezza?

Egli è nato dalla penna di Wolfram von Eschenbach, come uno stregone rinchiuso nel suo castello di meraviglia. Dopo esser stato evirato dalla rabbia – giusta o meno – del marito della sua amata con un colpo di spada, apprenderà le arti oscure ed infesterà le lande dei cavalieri, con sortilegi e malie volte ad attirare i cavalieri del Graal a sé, per creare un vero e proprio esercito personale.

Lo ritroviamo nell’ultima opera lirica di Richard Wagner: Parsifal. Egli stavolta usa Kundry, la messaggera del Graal, per irretire nel suo mondo di peccato Parsifal, in modo da far decadere la sua volontà e la sua purezza, fallendo miseramente grazie allo sforzo congiunto dell’amore di entrambi i protagonisti.

L’ultimo luogo in cui cogliamo la presenza di Klingsor è nei peregrinaggi di Corto Maltese, famoso anti-eroe dei fumetti nostrani. Corto si ritrova suo malgrado a viaggiare, anziché per i deserti africani o i canali veneziani, dentro il mondo fiabesco e finirà a tu per tu con il decaduto.

Stanco e sfinito dal continuo combattere un destino che oramai vorrebbe accettare, fa amicizia con il corsaro, fino a difenderlo Corto Maltese in veste di avvocato difensore durante un processo presieduto dal diavolo.

Sotto esame è l’evoluzione di Klingsor nei secoli, cosa è divenuto, quali sono le differenze e le analogie tra queste figure ed infine la comprensione del significato ultimo di questo personaggio, nelle sue svariate evoluzioni da scrittore a scrittore, cosa ha voluto comunicare ai suoi lettori e cosa essi hanno potuto trovarvi.

Minne und Ritter

A cavallo tra il XII ed il XIII secolo, la poesia tedesca in Mittelhochdeutsch attraversa un periodo di grande splendore. L’influenza delle corti francesi ispira nuove tematiche nelle liriche dei poeti dell’Impero e nascono nuove figure nelle corti germaniche, cugine dei Troubadours occitani: i Minnersänger. Oltre che negli argomenti trattati, l’influenza del sud risulta nello stile dei primi cantori alemanni, nell’uso della canzone o l’ispirazione alla sua struttura ritmica e rimica.

Le prime figure del periodo d’oro della poesia tedesca ad essere chiamate con tale titolo sono: Der von Kürenberg e Dietmar von Aist, entrambi ancora molto legati alle tematiche dei trovatori occitani; le loro liriche affrontano l’amore tra uomo e donna, in particolare tra cavaliere e dama. Il primo non ha un nome, è chiamato “Quello di Kürenberg”, il secondo è Dietmar da Aist, perché spesso i Minnesänger sono indicati con il luogo di provenienza.

Entrambi, pur condividendo un forte legame con la poesia provenzale, denotano come peculiarità una singolare attenzione per la figura femminile ed una certa indipendenza delle loro azioni nei componimenti a noi pervenutici, come si legge in testi come Slâfest du, friedel ziere? di Dietmar von Aist e La canzone del falcone di Der von Kürenberg, dove la voce narrante nei dialoghi che risolvono l’azione è affidata alla dama.

Agli inizi del XIII secolo, i Minnesänger trovano una propria identità, slegandosi dall’eredità dei Troubadours, verso una poesia germanica più autentica ed originale. I pionieri di questo cambiamento sono Reinmar von Hagenau, che riprende i versi della tradizione germanica ed introduce tematiche d’attualità riguardanti la contesta tra papato e impero, così come Albrecth von Johansdorf dedicherà cinque delle sue canzoni alle Crociate – delle 42 conservate nel Codex Manesse, Il Minnesänger più importante nell’età d’oro della poesia medievale tedesca è senza dubbio Walther von Vogelweide, con i suoi versi d’appassionata dedizione politica e l’importante ruolo di precettore per il figlio di Federico II, lo stupor mundi.

In questo clima di commistione tra modernità ed antiche tradizioni, fiorirono altri importanti generi nella poesia Mittelhochdeutch, tra cui la lirica d’ispirazione epica. La Kaiserchronik è il primo esempio di tale genere: una lunga cronaca a collegare le figure degli imperatori romani a quelli del Sacro Romano Impero, sino a Corrado III. Uno dei più importanti esponenti della nuova poesia epica tedesca è proprio uno dei Minnersänger: Wolfram von Eschenbach.

Wolfram von Eschenbach fu un poeta tedesco vissuto a cavallo tra il XII e XIII secolo. Si suppone fosse bavarese dalle dichiarazioni nei suoi componimenti e dal dialetto usato nelle sue opere, dando il nome alla cittadina di Eschebach che si pensa abbia dato al poeta i natali. Wolfram fu un cavaliere ancor prima che un poeta. Il famoso lirico del XII secolo mostra una produzione che fa sponda tra la sensibilità del Minnersänger nelle liriche figlie della tradizione provenzali ed il suo impegno come cavaliere, a trasparire nella sua opera più importante, che l’ha consacrato ai posteri: il Parzival.

Il Parzival tratta la storia del cavaliere della tavola rotonda Parzival, sotto diretta ispirazione della materia arturiana. L’opera è basata su Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, poema incompiuto di Chrétien de Troyes, lirico del XII secolo, molto fecondo nella propria produzione riguardo il ciclo bretone, anche se Wolfram scriverà, in un aneddoto fittizio, d’essere debitore ad un trovatore: Kyot il Provenzale, che si crede di finzione, nonché funzionale alla costruzione del paratesto dell’opera.

Il manoscritto del Parzival è stato diviso in sedici libri con ottocento-ventisette sezioni divise in strofe di trenta versi ciascuna con rime baciate. Il poema debutta con le avventure del padre Gahrmuret e ci presenta l’incontro con la futura moglie Herzeloyde. Subito dopo vengono narrate le circostanze della nascita di Parzival, il tentativo della madre di proteggerlo dalla vita da cavaliere che aveva causato la morte del padre.

Il giovane, dopo un incontro fortuito con dei cavalieri di Artù, decide di intraprendere un proprio viaggio per essere investito a sua volta nel cavalierato. Nella ricerca della propria strada, Parzival compirà molti errori e sarà condannato per i suoi sbagli, rimproverato per le sue leggerezze, eppure la purezza del suo animo e l’indomabile forza di volontà lo condurranno da Artù, combattendo le insidie del Minne stesso e della violenza di cui ci si macchia ci vive nel mondo della guerra e delle armi.

Il suo è un percorso graduale, in una catabasi dove, con un timorato eremita, ritroverà se stesso, il senso della sua cerca del Graal e del suo amore, tramite la ritrovata umiltà e di conseguenza il ritrovato amore verso Dio, che nella sua bontà gli ha donato tutto ciò possiede.

Un’altra figura si intreccia nella storia di Parzival, un altro cavaliere di Artù: Gawan di Norvegia. In alcuni dei sedici libri vengono seguite le gesta dell’eroe complementare del protagonista, la cui storia s’intreccerà a quella del novello cavaliere.

Duranti i suoi peregrinaggi, Gawan si imbatterà in una figura controversa per il proprio mondo, la cui selvaggia avarizia lo identificano come nemico dei pii cavalieri timorati dal Signore e soprattutto, un uomo a metà, un castrato: quest’uomo è il mago Clingschor.

In un mondo in cui gli uomini:

“[…] cercavano di distinguersi nei tornei, sfide in cui si cercava di sconfiggere i nemici per poi esigere consistenti riscatto in cambio della loro libertà, tutto ciò in presenza di un pubblico nobile in cui non mancavano le fanciulle da marito” Storica, National Geographic David Porinnas

Uno stregone le cui abilità erano la magia nera ed i poteri della negromanzia, non avrebbe potuto trovare posto nelle schiere del “bene”; venne istantaneamente riconosciuto come nemico da sconfiggere ed il suo castello visto come un’appetitosa conquista per la gloria dei cavalieri di Artù.

Der Nekromant

La figura di Clingschor è sfuggente e, come quella che potrà essere di Dracula nella letteratura ottocentesca, si colora d’un alone di mistero quando la sua assenza diventa una presenza importante nella mitopoiesi del poema del Wolfram. La genesi del personaggio dello stregone nasce da un concetto caro alla poetica dei Minnesänger: l’amore libertino per una dama già in sposa ad un altro signore. Come avviene per Tristan und Isolde, in Unten den Linden. Anche il momento in cui sono colti nel loro adulterio è un attimo importante per la letteratura cantrice del famoso e famigerato Minne:

“Lo sorprese il re: dormiva

tra le braccia di sua moglie.” Parzival – Libro XIII vv.16-17 

Quella del duca e stregone Clingschor è un’assenza perché la sua esistenza ci è svelata durante uno dei tanti racconti i personaggi del Parzival narrano ai loro protagonisti, per formarli, metterli in guardia, rimproverarli per le scelte sbagliate o porre monito perché non le compiano.

Nel XII libro del poema, Clingschor viene rivelato essere un mago, un negromante, che a detta di Orgeluse è in grado di piegare chiunque alla sua volontà tramite le arti magiche in suo possesso. Nonostante venga presentato come un personaggio avvezzo al tormentare il prossimo per suo capriccio, Orgeluse lo chiama “saggio e cortese”, denotandone la sua natura, in contrasto a come si mostra ed ai suoi atti, con i quali ha ridotto all’obbedienza non solo la dama, ma anche i suoi cavalieri. Suo è il castello incantato dove le quattro regine e le quattrocento dame vengono tenute prigioniere, le dame e le regine che Cundrie la sorcierie prega Artù ed il suo collegio di cavalieri di liberare. Gawan il Norvegese affronterà le prove una ad una del castello, uccidendo un grande leone che lo ferirà, suscitando le preoccupazioni di molte dame e regine, tra cui Arnive, che manda “donne esperte di ferite” per curarlo.

Nel XIII libro, quando Gawan si reca dalla regina Arnive per ringraziarla per essersi presa cura della sua persona durante la convalescenza, la dama, finalmente, racconta al cavaliere della Tavola la storia dello stregone le cui prove aveva dovuto combattere e dalla cui influenza aveva liberato la sua futura compagna.

Nel XIII libro troviamo una delle innovazioni con cui Wolfram supera il modello di Chretienne de Troyes e la sua eredità provenzale: la figura della donna, grazie ad importanti personaggi come la saggia Sigune, la colta Cundrie, l’orgogliosa Arnive e la pia Herzeloyde assumono nuova vita e non è più una semplice tappa nel viaggio dell’eroe teorizzato negli ultimi da Campbell; anche Clingschor, che prima era un semplice passo nel percorso circolare e catartico di Gawan e Parzival, prende vita, diventa un altro tassello pulsante di vita nel mondo del ciclo arturiano, descritto da più mani e più menti durante i secoli.

Un passo in avanti rispetto all’antagonista fiabesco di Proppiana memoria.

Wolfram, tramite le parole di Arnive, racconta la storia dello stregone ammaliò Orgeluse e mille altre anime con la sua magia, gli viene donato un titolo, un perché in ciò che fa, persino una genealogia nei suoi avi.

Arnive racconta come, tempo addietro, Clingschor fosse duca di Capua, nella penisola italiana; viene descritto come virtuoso finché “Non si rovinò”. Si innamorò della moglie di un re siciliano, Ibert, e questa ricambiava tale passione. Si incontrarono al castello del marito a Kabol Enbolot – identificata con Caltabollotta presso Sciacca – e si amarono, ma vennero scoperti dal re siciliano, che per vendetta castrò con la sua spada il povero duca di Capua. Il fato di lei non ci viene rivelato.

Mutilato ed in preda all’umiliazione, si recò nella città di Persida, dove apprese le arti oscure e magiche e con queste costrinse Irot, un re di Roche Sabbins, a cedergli una montagna su cui fondare il proprio regno ed edificare il proprio castello. Esattamente come Orgeleuse gli concesse, temendolo, la colonna con cui spiare il mondo, come rivelato da lei stessa nel XII libro.

Nel regno di Clinschor, dove Gawan recupererà i prigionieri, il mago ha costruito una rocca dove tiene con sé centinaia di vergini, quattro regine e “ogni cosa al mondo più rara”. Il regno di Clingschor ed in particolare la sua rocca vengono presentati un immenso crogiolo di accumuli ed abbondanza e sovraffollamento, dove, al centro, sta colui ha ammassato persone e cose, immobile.

Il primo parallelo che naturalmente viene da porre rispetto al mago è con il protagonista dell’opera, Parzival ed il suo percorso. Parzival e Clingschor.

Parzival, nel suo viaggio, ha sì rischiato di commettere adulterio sorprendendo Jeschute mentre dormiva, ma si muove sotto il consiglio falso della madre, che non poteva immaginare tali implicazioni nella sua buona fede. Inoltre, Parzival ha commesso questo peccato quando non possedeva alcun titolo, né di cavaliere né di cariche pubbliche. Quando verrà ordinato cavaliere, una delle sue prime opere di bene sarà cogliere un’occasione per difendere l’onore di Jeschute davanti il marito Orilus che l’aveva ripudiata perché credendola adultera. Vincendo, il cavaliere del Graal riesce ad invogliare in entrambi la riconciliazione, riparando così al suo errore.

Nella lotta contro un cavaliere del Graal, il protagonista perde il cavallo, uno degli elementi definisce l’eroe dell’epica, ed è costretto a recuperare quello dell’avversario, così come, per un’armatura, deve uccidere Iter e diventare il cavaliere rosso a sua volta.

Un percorso in discesa, sbagliato, nonostante l’animo virtuoso del cavaliere del Graal, che lo porterà persino a rinnegare Dio, considerato responsabile dell’eterna insoddisfazione del cavaliere errante e del fallimento nel porre la domanda fatidica al re custode del Graal, che gli avrebbe consentito di raggiungere all’archè della sua Quest.

Dopo il lungo periodo di privazione e penitenza con l’eremita Trevrizent, che rimprovererà il suo assassino e lo spingerà a ritrovare l’amore per dio e la donna amata, Parzival, dopo “tre dì, sei mesi e quattro anni” ritornerà alla sua cerca, con rinnovati fiducia e spirito.

Clinschor è lontano da Parzival ed è l’esempio contrario.

Nella sua rocca in cima ad una montagna fatata, Clingschor non si muove, rimane fermo non impegnandosi in alcun viaggio, né cerca. L’unico movimento dello stregone che il lettore – o l’ascoltatore – può percepire è prima della sua tragedia, quando si dirige a Kabol Enbolot a trovare l’amata e consumare l’amore libertino con la moglie del re siciliano Ibert, che segnerà la sua rovina.

Nel resto del racconto e nel libro XII, l’assenza – presenza dello stregone si palesa nel suo apparire sono tramite le parole delle sue vittime, entrambe donne.

Viene narrata l’assoluta abbondanza nel suo maniero, ma ciò colpisce è la dissonanza tra la sua menomazione e la natura delle sue conquiste, che, alla fine, vengono percepite dal mondo attorno a lui come rapine e rapimenti.

Clingschor non potrebbe violare le quattrocento fanciulle, né abusare delle quattro donne essendo lui “geschlechtsneutralen”. Né lo stregone viene citato godere esageratamente delle ricchezze; anzi, l’unica occupazione che sembra cara a Clingschor appare il costante sorvegliare le terre attorno il dominio estorto con la magia, per scandagliare costantemente i dintorni nella ricerca di altri beni umani e materiali da aggiungere ad una collezione immensa.

La colonna magica, in grado di vedere ovunque, diventa quindi un organo di controllo dell’immenso dominio ed assieme un sistema di sicurezza ante litteram per difendersi dagli intrusi, che, nella fattispecie, sono unicamente cavalieri in cerca di gloria, come Parzival o Gawan.

La domanda è: perché Clingshor agisce così?

Wolfram attinge a piene mani nel disegno dei Minnefeinde, i nemici dell’amor cortese, dell’onore della coppia promessa da tale. Il Minnefeinde è mosso dalla gelosia, così come Marke si insinua tra Tristano e Isotta in König Hahnrei nell’opera del drammaturgo del XX secolo Georg Kaiser, anelando ad un Minne simile al loro, lasciando che la passione annebbiasse la ragione con la gelosia, in una discesa sino alla tragedia finale di tutti e tre.

Clingshor invece, agisce non solo come accumulatore, ma anche da Voyeur; non ha mai superato l’umiliazione d’aver perso il tramite fisico con cui dare piacere alle donne, d’aver provato il Minne e non poterlo sfogare nella carne. Anziché prendere la strada dell’ascetismo, come sarebbe auspicabile in una società dalla forte impronta cristiana come quella medioevale, la decisione del futuro mago sarà quella d’apprendere la negromanzia e le arti oscure, pervertendo l’immagine del suo esimio antenato che è Virgilio, da cui sembra aver ereditato la predisposizione alle arti magiche.

Quel castello è ricolmo di ogni obiettivo materiale dei cavalieri, ma, al contempo, come abbiamo appreso prima da Treverizent l’eremita nel suo discorso a Parzival, armature, cavalli e donne sono nulla se non si è timorati di dio, né consapevoli che ogni gesto, ogni piacere terreno dev’essere vissuto in un’ottica più grande, di progressivo avvicinamento a Dio, da parte dei suoi soldati.

Clingschor non è solo geloso, è anche una rivendicazione rabbiosa di ciò gli è stato privato, dell’essere un uomo a metà, davanti al mondo, a causa della rabbia di un re, o di un nobile. Proprio con la spada, uno dei simboli del cavalierato, s’è consumata la sua castrazione ed ogni sventura del fu duca, proprio seguendo l’ideale di tutto ciò i cavalieri seguono per una vita intera:

“Die Motive von Clinschors Handeln sind aggressiv und eindeutig:

Rache und Vergeltung für die erlittene Schmach der Entmannung”

 

“I motivi di Clinschors sono aggressivi e chiari:

vendetta e rendiconto per l’imbarazzo della sua emasculazione”

Susan Tuchel, Macht ohne Minne, Zu Konstruktion und Genealogie des Zauberes Clingschor im Parzival, In: Archiv für das Studium der neueren Sprachen un Literatur, 1994

 

Per la violenza con cui è stato privato della sua virilità ed il contrasto tra come la natura della persona viene descritta da “der wise Clinschor” a come sia diventato “Clinschore ist staeteclîchen bî der list von nigrômanzl”, crea in qualche modo un senso di pietà, quasi comprensione nel lettore moderno, rendendo lo stregone del castello delle meraviglie una creatura estremamente moderna, che godrà delle reinterpretazioni, suggerimenti di redenzione o risanamento della sua figura. Quello di Clingschor è più un grido di rabbia, che la malevolenza di un antagonista.

Un altro parallelo forte che sorge con una storia ancor più vicina a quella dello stregone del castello delle meraviglie è quello col re che è sire del Graal e “non conosce la gioia”: Anforas, colui venne deluso da Parzival, nonostante il dono della spada.

Ancora dalla voce dell’eremita, ci viene rivelata la storia che portò Anforas a subire la ferita che gli impedisce di deambulare correttamente e lo affligge, come vediamo attraverso gli occhi di Parzival, durante la silenziosa cerimonia alla sua corte.

Ci viene rivelato che in giovinezza, quando “ogni giovane […] d’amore è sopraffatto/ e smarrisce senno e onore”, cercando di provare il proprio amore alla dama, venne ferito in duello da una lancia avvelenata e da essa avrebbe sofferto a lungo negli anni, fino a che un cavaliere non gli avesse chiesto la natura della sua sofferenza.

Entrambi soffrono per amore un’afflizione al proprio fisico, li rende uomini per metà. La differenza nel loro comportamento è nel tesoro posseduto – in senso lato – da entrambi.

Se lo stregone ha immense ricchezze e sudditi, non possiede il Santo Graal, né potrà mai averlo per sé.

Al contrario, Anforas non possiede immense ricchezze e sudditi, che anzi sono presentati e presentate in numero per preciso. Ma a lui sono stati affidati la sacra reliquia e la sua guardiana e nonostante il dolore egli presiede alla cerimonia del tesoro custodisce.

Un dolore simile e due strade diverse per accettarlo o negarlo e, infine, conviverci.

“Bist du keusch?” 

L’opera intera dell’universalmente conosciuto drammaturgo romantico Richard Wagner è costruita da una reintepretazione della materia nibelungica, delle canzoni dell’Edda e dei poemi medievali tedeschi.

L’ultimo dramma della carriera del poeta e compositore è una reinterpretazione della storia del personaggio di Parzival con forti richiami alla versione del poema di Wolfram von Eschenbach: il concilio di cavalieri, la condizione di Amfortas, l’apparizione di Kundry e così via, creano legami di convenienza alla fonte; pure, tutte queste figure vengono maneggiate e riproposte in una chiave del tutto nuova, ognuno in un suo percorso verso la meta ultima dell’opera stessa: la Redenzione ultima.

Klingsor, la cui grafia è cambiata, viene presentato come l’antagonista principale della vicenda e nella chiave di lettura wagneriana, viene suggerito un lato inedito della personalità dello stregone: Klingsor appare nel primo atto come ci appariva nel Parzival, ossia un’assenza tremenda, di cui si sente la presenza nello squilibrio creato nel mondo altresì perfetto auspicato dalla presenza del collegio dei cavalieri. Un mondo giusto, onorevole e virile.

Amfortas, il re del Graal, è ferito e l’artefice della ferita che non accenna a guarire è Klingsor stesso. Scopriamo, tramite le parole di Gurnamanz, la natura delle sventure di Klingsor. Incapace di tenere a bada il richiamo del desiderio (“Ohnmächtig,in sich selbst die Sünden zu ertöten”), ha cercato di salvaguardare la castità mutilandosi, in modo da unirsi alla congrega di cavalieri da cui il Graal l’aveva escluso. Quel gesto rabbioso lo condannò. Perduta l’opportunità per la salvezza, Klingsor ha appreso la magia nera ed ha convertito tutta la bontà del suo cuore in negromanzia. Egli ha quindi trasformato le pendici del monte in un giardino pieno di delizie, dove le quattrocento prigioniere di Wolfram diventano ammaliatrici che avvincono i cavalieri in cerca del Graal (“teufelisch holde Frauen”).

Per vendetta contro gli odiati cavalieri, trafuga la sacra lancia di Longino con cui ferirà il re della sacra reliquia, ricollegandosi alla ferita subita nell’opera originale dal custode del Graal.

La presenza – assenza della figura originale di Clingschor è riproposta per il Klingsor di Wagner, nell’incutere un’aura tremenda alla figura dello stregone, sottolineata dal suo leitmotiv che aleggia già dal primo atto; ci vengono raccontati particolari importanti riguardo le interpretazioni, rimarcate sia dalle differenze, che dalle similitudini. Entrambe offrono una chiave di lettura nuova della figura del villain arturiano.

I rinnegati condividono la pena d’un amore troppo carnale, che li esclude dalla grazia del Minne, dall’amore come dovrebbe essere e quindi viene loro precluso l’ultimo passo, fondamentale di esso: l’essere toccati dall’amore di dio. Fondamentale concetto per un paladino della fede e cavaliere, nella corte di Artù di Wolfram così come nel collegio di cavalieri di Wagner.

In Wolfram, Clingschor subisce la pena per mano d’un terzo, e questa è il frutto del suo allontanamento e dell’accumulo quasi compulsivo di beni e donne per privare il mondo di ciò che il mondo stesso l’ha privato.

Il Klingsor di Wagner è più subdolo nel suo intento: rubando la lancia di Longino si assicura del mezzo, ma non del suo reale significato, della santità e pace gli è stata negata. Viene suggerito da Gurnemanz che il suo castello sia null’altro che un’illusione (“Die Wüste schuf er sich zum Wonnegarten”) con cui però attenta alla volontà dei cavalieri del Graal, facendo leva sul loro desiderio erotico, dispiegando un’orda di fanciulle demoniache che irretiscono nella loro rete i cavalieri del Graal, creando l’esercito di Klingsor, che verrà combattuto nel II atto dalle forze di Amfortis.

Se per Clingschor l’emanazione della sua rabbia è centripeta, viene costruita dall’esterno, tramite rapimenti e razzie, verso l’interno, per il Klingsor wagneriano la rivendicazione dell’ingiustizia subita è centrifuga. Ogni cosa nel castello, dalle vergini allo specchio incantato con cui spia i cavalieri – a differenza della colonna sottratta ad Orgeluse – è emanazione della sua rabbia, è creata ed evocata dalla sua negromanzia, in modo che sconfigga chi viene percepito dallo stregone come responsabile della sua caduta come cavaliere e della perdita di virilità in quanto uomo.

Da un lato c’è una mutilazione subita per la furia d’un uomo tradito, ma dall’altro c’è un atto impulsivo e sconsiderato di rabbiosa negazione ed è quello che più di tutti rende ancora più tragica e forte la figura di Klingsor e la sua scelta che viene spiegata ed eviscerata nell’Atto II.

Se Wolfram aveva superato la sua ispirazione provenzale nel dare una caratterizzazione esemplare al mondo attorno i cavalieri protagonisti, Wagner, nel secondo atto, dona al villain, al suo Klingsor un volto ed una dimora. Lo osserviamo mentre spia i cavalieri.

La descrizione della sala del castello in cui dimora, con i suoi “Zauberwerk-zeugeI” e “nekomantische Vorrichtungen” dona profondità a questo castello incantato dello stregone, che diventa un covo di nefandezze, ma anche grandi prodigi, come lo specchio rivelatore dei cavalieri.

La scena prosegue con l’evocazione di Kundry che diviene uno strumento nelle mani di Klingsor. Spogliata della sua funzione di messaggera del Graal, punita per l’aver schernito il cristo sulla croce, Kundry è stata Erodiade e la Maddalena assieme. Il rapporto tra Klingsor e Kundry non è consensuale; Klingsor si bea dell’incantesimo che tiene Kundry incatenata al suo volere tramite la maledizione a pendere sul capo della donna centenaria e questa, orgogliosa, lo insulta ricordandogli la virilità menomata, prendendosi gioco della sua castità forzata.

Klingsor nonostante la castrazione, si mostra persino geloso di Kundry; non è la gelosia di un amante, è la gelosia possessiva che ha rimembranze della sua raffigurazione originale in Wolfram: una gelosia possessiva (“Gefällt dir’s bei mir nicht besser?”).  Ha paura i cavalieri strappino via da lui Kundry, il suo balocco di lussuria e la sua arma più potente per distruggere la volontà ed umiliare i paladini che l’hanno emarginato (“Sie helfen dir nicht / feil sind sie alle”).

In un breve monologo, Klingsor racconta ed è più ostile, rabbioso, con una precisa strategia per far cadere i cavalieri, dopo aver gioito della battaglia tra i difensori del suo castello, soggiogati dalle teufelisch Frauen, ed i fedeli ad Amfortis.

In particolare, Parsifal viene avviluppato in una strategia in tre punti. La seduzione delle fanciulle in fiore, che si presentano a Parsifal dapprima riottose ed inavvicinabili, in seguito desiderose di giacere con il cavaliere, preparano il terreno all’ultima arma di Klingsor, emanazione di ciò in cui lui è caduto. Lo stregone vuole distruggere i principi su cui si fondano le credenze dei cavalieri del Graal, mostrandogli come siano nel torto, di essere anch’essi vittime della carne, di essere come lui e non dei santi. Klingsor e Clingschor vogliono entrambi umiliare i cavalieri davanti al mondo.

Eppure, nella sua sicurezza, Klingsor non ha considerato la natura di entrambi gli attori della scena: la sua arma, in preda al dolore per l’atavica colpa dell’aver schernito Gesù sulla croce in quanto Erodiade, fu anche Maria Maddalena, la prostituta protetta dal messia. Parsifal ha abbandonato la madre a morire, ma la profezia recita che un pazzo (“Fall”) e puro di cuore (“Parsi”), sarebbe diventato re del Graal.

Nel loro primo incontro, la lussuria domina la scena, con il cavaliere a tentare di combatterla assieme a Kundry stessa, che, lentamente, ricorda il dolore della propria condizione. “[…]dalla sofferenza (Leiden) all’amore (Liebe), dalla passione (Leidenschaft) alla redenzione (Erlösung), nessuna tappa vi è tralasciata” [http://www.teatrolafenice.it/media/libretti/67_2604parsicomple.pdf].

Così attraverso il “langen Kusse” che avrebbe dovuto sancire la vittoria di Klingsor e la sconfitta di Parsifal alla carnalità, le due anime trovano redenzione nella passione ed amore nella sofferenza; trovano il Minne di cui Wolfram stesso cantava, si avvicinano a Dio.

Klingsor è convinto il suo piano abbia avuto successo e scaglia la lancia sacra contro Parsifal e le sue stesse parole decretano il suo fallimento.

“Halt da! Dich bann’ ich mit der rechten Wehr!

Den Toren stelle mir seines Meisters Speer!”

 

“Fermati! T’inchiodo con l’arme che ci vuole!

M’arresti quel folle, la lancia del suo signore!”  

La lancia “rechten” è la lancia dei giusti e così come Klingsor stesso riconosce nella propria furia, il signore di Parsifal è tornato a proteggerlo, così come è stato ritrovato da Parzival dopo l’incontro con l’eremita in Wolfram.

La lancia non colpisce, ma rimane a mezzaria, incapace di colpire un puro di cuore. Parsifal, avendo ritrovato la luce del signore attraverso l’amore d’una fanciulla, disegna il segno della croce con la lancia sacra. Davanti al simbolo della Verità, ogni illusione di Klingsor si mostra per ciò che realmente è.

Ogni illusione Klingsor ha costruito si rivela nella sua vacuità, il suo castello “sporcaccione” cade in un terremoto come fosse di carta. Klingsor viene battuto dalla sua stessa strategia.

Il Klingsor di Wagner è senza dubbio un personaggio ben più negativo e violento della sua controparte nel Parzival di Wolfram, tanto che assurge ad esempio assoluto di peccato e di impotenza verso i propri desideri. Al contempo, aggiunge un tassello importante a questa figura che ha attraversato i secoli: la sua rabbia per essere stato escluso ed il suo desiderio, mai realizzato, di far parte di un disegno puro e grande; l’ascoltatore potrà anche vederlo come malvagio, ma non può che simpatizzare con la sua condizione e provare pietà per quest’anima la cui rabbia, dopo secoli, è ancora vivida.

“Non succede tutti i giorni d’incontrare un Klingsor”

Hugo Pratt è uno dei maggiori esponenti del fumetto italiano del 900. L’opera del riminese è particolarmente rinomata per il suo personaggio principe, protagonista di avventure immortali come Una ballata del mare salato e Favola di Venezia: Corto Maltese.

Corto Maltese è un personaggio nato alla fine degli anni 60 sulle strisce della rivista Sgt. Kirk, sino alla pubblicazione, negli anni 70 della sua prima avventura: Una ballata del mare salato, che darà inizio ai lunghi peregrinaggi dell’affascinante personaggio.

Pirata di vocazione, egli toccherà molti punti del mondo durante i primi quindici anni del XX secolo; essendo un inguaribile romantico, nonostante l’ostentato pragmatismo di quando in quando, Corto Maltese riesce ad entrare in contatto con la parte più esoterica e misteriosa di luoghi egli visita, rivelandone la natura, che si mostra a lui molte volte in maniera giocosa, altre grottesca, altre volte ancora minacciosa.

La sua penultima avventura, le Elvetiche (1987), lo porta in Svizzera, nel 1924, nella casa di Herman Hesse in vista di una riunione di alchimisti a Sion, seguendo il professore Jeremiah Steiner. Essendo Hesse assente, Corto incontrerà un giovane ragazzino che si presenterà col nome di Klingsor e confesserà di “poter avere” settecentotredici anni.

Il ragazzo si presenta come un parto della fantasia divenuto realtà di uno scrittore, trovando l’incredulità del pirata; la stessa incredulità lo relegherà a personaggio d’un affresco medioevale, dove altre figure parleranno al corsaro, raccontandogli della genesi di Klingsor, da Wolfram sino ad Hesse, passando per Wagner. Colui che lo redarguisce e racconta la storia di Klingsor si presenta come Ulrich von Zatzickhoven, l’autore dell’opera in mittlehochdetusch Lanzelet. Ulrich spiega a Corto Maltese come i tre Klingsor di Wolfram, Wagner ed Hesse, siano in realtà sempre la stessa persona con manifestazioni diverse a seconda dello scrittore che lo “immagina”, ma sostiene che egli non cambi mai.

Come a prova di questo, nell’affresco la figura del ragazzino muterà, diventando speculare all’immagine conservata di Wolfram nel Codex Manesse, risalente al 1300. L’arrivo del professor Steiner dissiperà l’allucinazione di Corto, che cercherà di comunicargli cosa ha appena vissuto. Steiner terrà una breve lezione riguardo il ciclo arturiano e Pratt, tramite le sue parole, cercherà un punto in comune, un momentum in cui unire varie leggende da cui far confluire la storia di Clingschor “o Klingsor” come si è prevenuta fino ad oggi. Egli, tramite la fantasia di Wolfram e Wagner, si è appropriato del castello “sporcaccione” in cui fu rinchiusa la “rosa del peccato”, una principessa bellissima e lussuriosa; pur avendo tentato l’evirazione per sfuggire al peccato ispirato da questa, fu tutto inutile. Corto, interessato, si procurerà una copia del Parzival e la leggerà prima di addormentarsi, ritrovandosi così dentro un mondo fantastico.

Dopo alcune vicissitudini, tra cui un incontro con la Morte, il pirata incontrerà finalmente Klingsor, che lo attaccherà con la propria spada.

Emblematici due momenti del percorso di Corto verso Klingsor: l’apparizione in caratteri ebraici delle parole “Sin Sade Hain”, lette come “Rovina Delusione Espiazione” e le fattezze con cui il cavaliere rinnegato e stregone compare dinnanzi il nolente escapista.

Il primo momento descrive in tre parole la parabola del villain cavalleresco durante i secoli, la rovina della lussuria che l’ha avvinto sin dalla sua nascita letteraria, la delusione che lo porta a creare e popolare il suo castello della lussuria e l’espiazione, che avverrà solo grazie all’aiuto di Corto Maltese. Passato, Presente e Futuro nella storia dello stregone in tutte le forme egli ha assunto.

Il secondo momento mostra un Klingsor vivente indossare l’armatura con cui viene ritratto il suo creatore, Wolfram von Eschenbach nel Codex Manesse. Da un lato è naturale identificare un personaggio con colui gli ha dato vita, ma le sembianze assunte, unite ad un discorso di natura metanarrativa e metaletterario riguardo cosa sia reale e cosa sia parto dell’immaginazione, se scrittore o la sua opera, getta una nuova luce su Klingsor stesso.

Viene suggerito, tra le mille implicazioni di questo piccolo monologo, anche che Klingsor, nonostante anni passati dalla parte dell’antagonista, nonostante la sua rabbia di fronte alla propria impotenza, non sia a tutti gli effetti estraneo al proprio scrittore, umanamente. Se Wolfram, così come Wagner, hanno reso questo stregone un personaggio tridimensionale, con una propria storia, nella loro interpretazione, allora Clingschor e Klingsor non sono solo parti d’una necessità in funzione dell’eroe, ma anche momenti in cui ciò che l’autore “vorrebbe” essere, si scontra contro ciò l’autore vuole mettere come cattivo esempio, ciò che “non vuole diventare”, ma che, al contempo, nella loro umanità sentono tremendamente vicino, come escluso, come deluso, come anima piegata dagli eventi. L’evirazione è un tentativo estremo di negare, mutilandosi, una parte di noi, anziché accettarla e conviverci.

Klingsor è portatore di una paura, del timore non solo di non poter fallire nel proprio intento, ma anche che questo fallimento si impadroniscano della nostra vita, divenendo un male, oltre che mentale e spirituale, anche fisico.

Quando Corto chiederà a Klingsor chi sia lui tra “il cavaliere del male, quello della rosa alchemica o il cavaliere malinconico”, egli risponderà di essere tutti e tre, perché tutti e tre rischiano di diventare lui e lui è stato tutti e tre in ogni opera l’ha rappresentato, in ottocento lunghi anni.

L’assalto di Klingsor a Corto Maltese, visto come intruso, viene fermato da Kundry, che appare assieme alle fanciulle-fiore del secondo atto dell’opera wagneriana.

La dama rimprovera il cavaliere decaduto come fosse un bambino e questi, stizzito, le addossa la colpa della sua evirazione e della sua caduta in disgrazia. Kundry nega che l’amore carnale li legava fosse “la ragione della sua evirazione”. La damigella del Graal, nella reinterpretazione di Hugo Pratt, non è più strumento di Klingsor, ma quest’ultimo diviene quasi una sua vittima, benché il lettore non possa avere nulla da recriminare alla maga: le sue ragioni appaiono valide: sovvertire il mondo e soggiogare chi si crede puro d’animo, ma non lo è. Kundry ha quindi preso il posto di Klingsor e pare avere più successo di lui.

Uscita di scena la maga, Klingsor dimostra la sua conoscenza della magia spiegando a Corto i sortilegi di Kundry e sfogandosi riguardo la sua storia, dichiarando di essere malvagio esattamente come lei, che, malvagia è parsa affatto.

Così si offrirà di accompagnare Corto sino al castello del Graal, con la promessa di recuperare per lui la rosa alchemica, la rosa del peccato e ricongiungerla a lui.

Così uno dei villain per eccellenza, si fa guida ad un nuovo tipo di protagonista, l’anti-eroe, l’eroe byroniano figlio di una nuova era, che ripercorre le orme degli sbagli del primo, affrontandoli senza giudicare. L’assunzione a guida di Klingsor lo mette in diretto collegamento con colui che, secondo Wolfram, era il suo avo: Virgilio. Come Virgilio guidò Dante all’inferno, Klingsor guida Corto sino al castello del Graal, ma si ferma ai suoi cancelli anziché entrare, perché non può. Lo prega, tuttavia, di ricongiungerlo con la rosa adducendo il motivo di tale bisogno alla sua necessità di ritrovare il suo diritto ad essere uno degli iniziati ai segreti del mondo medievale.

Come un sigillo, la rosa alchemica avrebbe restituito lui il diritto di far parte di quel mondo, diritto che gli era stato, sinora, negato, per le sue colpe.

Per la prima volta, assistiamo ad un tentativo di ricongiungimento di Klingsor con il mondo che l’ha dimenticato: la più forte differenza tra il Klingsor di Pratt ed i suoi vendicativi predecessori di Wagner e Wolfram.

Corto continuerà il suo lungo peregrinare, una volta ritrovata la Rosa Alchemica, farà a lei il nome di Klingsor. La rosa parlante, con amara ironia, dirà la propria riguardo il fallimento secolare del cavaliere decaduto, pur compatendolo: non è, né sarà nella sua natura essere un iniziato dei segreti di cui lui stesso ha parlato a Corto.

Nonostante questa sconfitta è proprio grazie a Corto Maltese che finalmente Klingsor troverà il suo riscatto e la sua espiazione, prendendo le difese dell’intruso davanti ad un tribunale d’eccezione.

Una volta bevuto dal Graal, il marinaio viene approcciato dal diavolo, che gli impedisce di tornare alla realtà, in quanto ora è assurto al ruolo di “essere perenne”. La sacralità o meno dal Graal cessa di avere importanza nel momento in cui un mortale beve da esso. Un mortale che, nella sua imperfezione e nella ricerca dell’immortalità, deve essere giudicato degno o meno dal diavolo in persona e da una giuria di uomini e donne a metà tra la religione e la blasfemia, tra cui Clemente V, Merlino, Giuda e così via.

Klingsor si ergerà a difensore di Corto Maltese e quello sarà il suo riscatto.

Corto ha bevuto dalla coppa senza saperne le implicazioni, nella sua involontaria ricerca di una qualità che non appartiene all’uomo mortale, quindi viene citato in giudizio per il suo rifiuto di far parte della confraternita demoniaca.

Contro questa decisione a priori, senza alcun senso a dire del marinaio, si scaglia Klingsor nella sua arringa difensiva, senza utilizzare né la spada, né alcun sortilegio; semplicemente usando le parole, narra non solo la condizione di un individuo, ma una prigionia avviluppa ogni mortale soggetto a decreti divini di cui non può conoscere natura ed esistenza.

Quel “qualcosa che non funziona” di cui parla Klingsor è la stessa legge divina sconosciuta ai più, che ha condannato non solo lui, ma innumerevoli figure dell’epica cavalleresca a peccare, pur senza comprendere e non tutti hanno potuto trovare redenzione, come lui stesso, il quale, pur mosso da rabbia e rancore ha tentato una reazione umana senza ricercare un contatto con un mondo in cui sarebbe soggetto a leggi che somigliano più a capricci.

Il discorso di Klingsor pone a giudizio ciò che lui chiama “diritti teorici e immaginari”, accusandoli di non poter in alcun modo garantire alcuna garanzia reale. Anzi pone davanti ad essi i “diritti naturali” di ogni uomo davanti ad essi, perché reali e concreti e non astratti, senza alcun riscontro reale. In Wolfram, in Wagner egli ha visto a sé negati i primi: gli fu negato di essere parte di qualcosa più, per alcun motivo potesse trovare spiegabile, reagendo quindi nelle maniere più estreme e disperato, appunto perché non trovava spiegazione nella sua emarginazione dal Minne o dal collegio dei cavalieri. Anche questi ultimi sono oggetto della decostruzione con cui Klingsor esamina il mondo che gli ha dato la vita e l’ha relegato ad eterno antagonista.

Chiama a testimoniare durante il processo Kundry, la Morte, un Orco – che in realtà è un orango -, nemici giurati dei cavalieri di dio, ma che si dimostrano ben più che in grado di dare una risposta soddisfacente in difesa del Maltese. Per ultimo chiama il Graal, che non solo testimonierà a favore di un pirata, ma lo metterà su un piedistallo, meritevole d’essersi avvicinato con “gentile semplicità” al Graal, contrapponendola a “quell’arroganza, presunzione e ampollosità che “helas” imperano nel mondo dei cavalieri e del potere”.

Viene suggerito, neanche troppo velatamente, una dicotomia tra ordini cavallereschi e tirannia del potere, giustificata dai “diritti teorici” contro cui s’è scagliato una delle sue vittime, Klingsor, eppure re, principi e cavalieri, anche nelle tradizioni germaniche, non si son macchiati di minori mali che la smodata passione amorosa: si pensi a Parzival che uccide Ither, a Sigfriedo che stupra a tradimento Brunilde e così via.

Al termine del processo, Corto e Klingsor vinceranno la loro causa, avendo convinto la giuria demoniaca; villain ed anti-eroe diventeranno buoni amici e proveranno rispetto l’uno per l’altro. Il marinaio rispetterà la tenacia di Klingsor, mentre questi apprezzerà la “gentile semplicità” di cui è capace l’eroe di Pratt.

L’ultima cosa dirà Klingsor, prima di donare a Corto un anello con il proprio stemma, rendendolo, a tutti gli effetti, suo araldo e portatore della sua vera e reale storia, è confessare che forse “parlava per se stesso”.

Nell’opera di Hugo Pratt, Klingsor, dopo secoli, riesce a trovare un riscatto che gli appartiene, difendendo una figura – quella dell’eroe byroniano – che avrebbe reso giustizia alle sue ragioni, alla sua rabbia. Così, Klingsor avrebbe finalmente trovato un compagno ed avrebbe finalmente trovato la sua espiazione, ponendo così un fine ai sette secoli di rabbia lo avviluppavano, oramai stanco e desideroso di quietarsi.

Conclusioni 

“This is not a tragedy. This was not an accident. This is what happens when you hand over your trust, your safety, your children, to men who claim to be our guardians, but are in reality nothing more than men.”

  

Così come si è aperto questo lavoro con una citazione al Bardo, araldo della letteratura più alta, si chiuderà, attraversando i secoli, con un personaggio della serie animata RWBY, prodotto dell’industria culturale, ma, nella struttura del suo storyboard, inevitabilmente legato al discorso affrontato.

Cinder Fall, la antagonista in questione, debutta così nel proprio discorso durante l’invasione ad opera delle proprie armate di bestie demoniche il cuore dell’equivalente dei cavalieri del Graal del suo mondo.

Così come si è aperto questo lavoro con una citazione riguardo il personaggio, l’archetipo dell’antagonista giurato del bene, si chiude con una denuncia all’orgoglio, alla Hybris dei suoi paladini; un tentativo di spogliarli dalla loro aura di santità.

Un sottile filo rosso lega ogni villain tra loro e quel sottile filo rosso si snoda nella storia di Clingschor, di cui, coscienti o meno, sono stati ispirati il machiavellico Riccardo III e la spietata Cinder Fall. Come ha indicato Susan Tuchel, Clingschor è la prova della fallibilità di tutto ciò riguarda il mondo costruito dai cavalieri e dalle loro istituzioni.

In quel “nothing more than man” riferito a coloro si ergono ai guardiani dell’umanità, si può rileggere l’astio del Klingsor wagneriano verso i tronfi cavalieri che cavalcano verso il suo castello magico. In quel “nothing more than man” vi è un concetto che risuona nell’ammonimento di Klingsor a Kundry riguardo i cavalieri di Amfortis: “Sie helfen dir nicht / feil sind sie alle”.

Non possiamo, inoltre, mai essere certi, oggi, che la ragione sia ad esclusivo appannaggio degli splendenti armigeri del Graal, come ha dimostrato l’arringa del Klingsor disegnato da Ugo Pratt riguardo l’etica ed il diritto.

Sarebbe errato dire che le reinterpretazioni della Mittelalter Rezeption diano nuova linfa a questi personaggi. Invece, la linfa di queste figure epiche e mitiche è già sgorgata dai tempi di Wolfram e Wagner ed Hugo Pratt, figli del loro tempo, se ne sono abbeverati; l’hanno fatta ancora più propria ed hanno sviscerato nuove tematiche, nuovi volti per una creatura come Klingsor, spogliandolo di un significato a senso unico come fosse un cattivo fiabesco e penetrando sempre più a fondo nei tratti della sua personalità, creando un personaggio vivo, che respira di vita propria.

 

Bibliografia

 

 

  • M. Bowra, Heroic Poetry, McMillan & Co. LTD, London, 1952
  • Bumke, Joachim (2004). Wolfram von Eschenbach (in German). Stuttgart: J.B. Metzler, 2004
  • Mittner, Storia della letteratura tedesca, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002
  • Rüdiger Krohn da The magician in medieval German literature by Sherman, Jon B., University of Illinois, 2008
  • Susan Tuchel, Macht ohne Minne, Zu Konstruktion und Genealogie des Zauberes Clingschor im Parzival, In: Archiv für das Studium der neueren Sprachen un Literatur, 1994

Sitografia

  • http://www.teatrolafenice.it/media/libretti/67_2604parsicomple.pdf